Sabato 15 aprile la rivalità politica tra i due generali ai vertici del Consiglio Sovrano che – al momento – guida il Paese, il presidente Abdel-Fattah al-Burhan e il vicepresidente filorusso Mohamed Hamdan Dagalo, è sfociata in scontri e violenze, prima concentrati solo nella capitale Khartoum e poi estesi anche in altre città.
I combattimenti vedono da un lato i paramilitari delle Forze di supporto rapido (Rsf, Rapid Support Forces), agli ordini del vicepresidente Dagalo, e dall’altro l’esercito regolare, comandato dal presidente al-Burhan.
Per capire cosa sta succedendo bisogna comunque tornare indietro di qualche anno. Dall’indipendenza dal Regno Unito nel 1956, il Sudan aveva avuto colpi di stato nel 1958, 1969, 1985, 1989. Nel 2019, dopo 30 anni di dittatura, al Bashir fu deposto con un golpe. Al-Burhan e Dagalo stavano entrambi dalla stessa parte, contro l’ormai ex presidente. Si instaurò un governo transitorio che avrebbe dovuto portare poi a elezioni democratiche
Nell’autunno del 2021, Dagalo e al-Burhan unirono le forze per far cadere lo stesso governo civile a cui entrambi partecipavano. Diedero così vita all’alleanza militare del Consiglio Sovrano.
Verso la fine del 2022 l’equilibrio precario della convivenza tra Dagalo e al-Burhan inizia a cedere. L’esercito governativo, anche dietro la promessa di ricevere nuovi aiuti economici da parte della comunità internazionale, aveva infatti acconsentito a riprendere la via della democratizzazione che i due leader avevano bloccato l’anno prima.
Si chiedeva però che le Rsf venissero integrate nell’esercito, in un periodo massimo di due anni, così da formare un unico corpo militare. Dagalo, a cui questa condizione non è mai piaciuta, ha proposto invece un processo per l’integrazione dei due comandi più lento, che potrebbe durare in tutto fino a 10 anni.
Da quel momento l’unione tra i due si è rivelata come una lotta per il potere, a colpi di accuse reciproche che si sono trasformate in scontri armati.
Nei giorni scorsi molte ambasciate sono state chiuse e centinaia di stranieri sono stati evacuati. Anche circa 140 nostri connazionali sono stati tratti in salvo con aerei dell’aviazione militare italiana.
Ora la carneficina continuerà con meno testimoni indipendenti e tra qualche giorno l’interesse mediatico per forza di cose sfumerà, come è sfumato in altri casi analoghi: ultimo l’Afghanistan.
L’esercito regolare (Saf) e le milizie paramilitari delle Forze di intervento rapido (Rsf) si combattono senza dare segnali di interesse per l’apertura di un tavolo negoziale.
Inoltre si fa di ora in ora più intenso il flusso dei profughi. Tra le 10 e le 20mila persone, la grande maggioranza donne e bambini, hanno già passato il confine con il Ciad, aggravando la già grave situazione umanitaria nel paese.
In questo quadro drammatico si registrano infiltrazioni di miliziani legati a Dagalo, gli stessi che in questi anni hanno compiuto stragi nel Darfur. Si tratta di gruppi armati insediati nel Sudan Occidentale e nel Ciad Orientale, che sarebbero foraggiati dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti. Come se non bastasse, in Sudan si è consolidata la presenza dei mercenari della compagnia russa Wagner i quali operano in diversi settori del Paese, dal nord-est dove vi sono alcune miniere d’oro alla regione occidentale del Darfur.
È certo che Dagalo intrattiene proficui rapporti con Mosca e che vi è una stretta collaborazione tra Wagner e Rsf nelle zone minerarie aurifere. E vale la pena di ricordare che la Meroe Gold, società sussidiaria nel settore estrattivo della Wagner, presente in Sudan, è stata sanzionata recentemente dal Consiglio dell’Unione Europea in quanto le sue attività mettono in pericolo la pace e la sicurezza internazionale.
Di fronte a questo scenario è difficile fare previsioni positive sull’evoluzione della crisi.




