Chi  c’è dietro un Nobel per la Pace? Come uno scoop, ogni anno, si ripete da Oslo il rito dell’annuncio del vincitore/trice di uno dei premi internazionali più attesi. Per un giorno si condivide o si critica la scelta del Comitato, poi il nome premiato cade nel dimenticatoio, tanto…le guerre, i conflitti, le ingiustizie continuano! Qualcuno contesta anche questa tradizione annuale come un flop d’incoerenza ricordando soprattutto che l’ideatore, Alfred Nobel, dedicò una vita allo studio della dinamite a scopo bellico e solo alla fine dei suoi anni fu convinto dalla sua segretaria austriaca pacifista Bertha von Suttner a lasciare nel 1895 un’eredità per istituire tale premio. Dal 1901 ad oggi sono state 46 le donne insignite del Nobel considerando tutte le categorie. Sono invece 16 le vincitrici  del premio per la Pace. Donne rappresentanti della Liberia, dello Yemen, del Kenia, dell’Iran, degli Stati Uniti, del Guatemala, della Birmania, della  Svezia, dell’Albania, dell’ Irlanda più o meno note, premiate per le loro lotte: per la libertà di pensiero ed espressione, contro l’inquinamento, per i diritti all’infanzia e alle donne, per l’abolizione della produzione e vendita di mine antiuomo, per i diritti dei popoli indigeni, per il welfare sociale e il disarmo, per i poveri, per la diffusione di tematiche pacifiste.

Quest’anno, il 2023, la  prescelta è stata Narges Mohammadi, 51enne attivista e giornalista per i diritti umani nell’Iran. Lei ha dedicato la sua carriera alla lotta contro la repressione governativa, con particolare attenzione ai diritti delle donne. Attualmente sta scontando una condanna a dieci anni di carcere nella prigione Evin di Teheran per «diffusione di propaganda antistatale». Isolamento che lei chiama “tortura bianca”, il cui scopo “è quello di interrompere permanentemente la connessione tra il corpo e la mente di una persona per costringere l’individuo ad abiurare dalla propria etica e dalle proprie azioni”. Ha pagato le sue battaglie con la perdita della libertà, le torture e la separazione dal marito e dai suoi due figli, che vivono in esilio in Francia e che l’attivista non vede di persona da otto anni. Il regime iraniano l’ha arrestata 13 volte, condannata cinque volte a un totale di 31 anni di carcere e 154 frustate per punirne anche la coraggiosa lotta contro la pena di morte. Anche dalla prigione, tuttavia, Mohammadi è riuscita ad organizzare proteste nell’ambito della rivolta guidata dalle donne. Un’eroina? Una fuoriditesta? Un’incosciente? Le sue dichiarazioni ci aiutano a capire l’urgenza di impegnarsi perché i suoi ideali appartengono all’intero popolo iraniano ma fanno eco in tutte le società oppresse nei diritti fondamentali.

“Ero piena di gioia quando studiavo la fisica quantistica all’università come mezzo per comprendere l’universo. Ma allo stesso tempo ero preoccupata per le condizioni di oppressione del mio Paese e per la tirannia subita dalle nostre università, dagli intellettuali e dai media… Per istituzionalizzare i diritti umani e raggiungere la pace tra il popolo e lo Stato, sopporterò la mia privazione della libertà e dei diritti. Come attivista civile, sono una delle migliaia di vittime di queste orribili torture. La tirannia non si impone da sola nei paesi. Come molti altri nelle nostre università, mi sono sentita in dovere di unirmi alla lotta per la libertà…Uccidere, imprigionare o negare i diritti di un essere umano non è un’ingiustizia contro una sola persona, ma incatena e uccide un’intera società… Sono una donna e una madre e, con tutta la mia sensibilità femminile e materna, cerco un mondo libero dalla violenza e dall’ingiustizia… Ho fiducia nel percorso che ho scelto, nelle azioni che ho intrapreso e nelle mie convinzioni. Sono determinata a fare dei diritti umani una realtà. Devo tenere gli occhi puntati sull’orizzonte e sul futuro, anche se le mura della prigione sono alte e vicine e mi bloccano la vista. E ha aggiunto dopo la proclamazione al premio: «Il sostegno e il riconoscimento a livello mondiale della mia attività di difesa dei diritti umani mi rende più risoluta, più responsabile, più appassionata e più speranzosa»

Dunque DETERMINAZIONE, RESPONSABILITA’, PASSIONE UMANA E SPERANZA. Questi gli ingredienti che i “Nobel” usano per raccontare con la loro vita la Storia di popoli disperati affinchè la loro vicenda umana diventi un po’ anche la nostra. E che il nostro sostegno riesca ad abbattere moralmente quelle mura prigioniere!